SOROR MYSTICA

 


Ad ogni buca della strada –e ce n’erano tante – il trabiccolo sobbalzava paurosamente, come se con un solo salto volesse congiungersi ai suoi simili nel paradiso delle automobili (ma esiste?) per poi ricadere pesantemente sull’asfalto, d’improvviso memore di non essere un velivolo. I gemiti degli ammortizzatori ad ogni scossone ricordavano alla persona al volante  che l’uscita dell’auto dalla fabbrica era un ricordo ormai lontano e sperso nella nebbia dei tempi.  Spericolata però era la guida di Marjia: dove andava così spedita?  Da come conduceva l’auto semi-millenaria si sarebbe detto all’altro capo dell’universo, all’appuntamento con  il suo alter ego che le veniva incontro facendo il giro nel senso opposto.

Su certe cose non si scherza, disse fra sé, frastornata da quell’inquietante pensiero che risuonava degli echi di una fisica visionaria di stampo einsteniano.

La verità era molto più prosaica ancorchè poetica al tempo stesso: lei si recava in tutta fretta dal suo amante, Mikhail, prima che lui si imbarcasse, per dissuaderlo dall’impresa pericolosa che si era prefissato di compiere, spinto da una latente vocazione eroica o forse solo temeraria, chissà.

La vettura si arrampicò ansimante sugli stretti tornanti che puntavano in alto, sempre più in alto e arrivò infine, con un sospiro di sollievo, al cottage in legno arroccato sull’altura che dominava la vasta pianura con la striscia azzurra del mare sullo sfondo: il porto, da lassù piccolissimo, si intuiva brulicante di attività, di commerci, di improperi, di gente ansiosa e astiosa al contempo. Lei, scendendo dalla macchina, vi gettò uno sguardo risentito, come se fosse un mostro che avrebbe di lì a poco divorato il suo amore.

Lui la aspettava sulla soglia, pacato e sorridente come sempre, con quel suo perenne sguardo di ragazzo negli occhi, che aveva ancora tante meraviglie da scoprire.  Senza parlare la avvolse stretta in un abbraccio che la fece sentire come se fosse rintanata al caldo tepore del rifugio che accoglie l’orso al letargo: quelle braccia, indubbiamente, erano casa sua, se ne rendeva conto sempre più, con gioia  e rammarico insieme. La gioia di aver trovato il proprio posto nell’universo, il segreto dolore di sapere che lui era come il vento, e forse mai lei lo avrebbe cavalcato in piena sicurezza, sapendo dove la portava.

Le labbra si incontrarono e bevvero le une dalle altre come se non si fossero mai nemmeno sfiorate: era sempre così con lui, il brivido sempre rinnovato di un sentimento che scavalcava abitudine e banalità, i sentimentalismi stucchevoli come le passioni selvagge, ma che si alimentava di un fuoco segreto che pareva inesauribile, e sempre vivo, sempre brioso, caldo al punto giusto.

Entrati nello chalet, lui non le dette tempo di proferire parola; sempre baciandola, iniziò a spogliarla lentamente, carezzando dolcemente ogni centimetro di pelle del suo corpo man mano che la scopriva.

Quando lui la penetrò, le sembrò come la prima volta: una meraviglia di piacere, di stupore, di ritrovamento di sé e dell’altro, nel tutt’uno di un’estasi che mai aveva conosciuto prima di lui. Dopo, con il capo dolcemente reclinato sul petto di lui, sgorgarono infine da lei le parole, ruscello tranquillo che solca la pianura stellata e raccoglie le fragranze dei campi al passaggio; e si ritrova più saggio e ricco al suo confluire nel fiume.

E scese la magia su quelle parole, sui loro volti trasfigurati, sul loro corpo e sulla mente trasognata dai ritmi dell’amore. Lontano si spersero gli occhi che scrutavano da dentro, presi dal vortice impalpabile dell’arcano più antico del mondo, il legame tra un uomo e una donna: sacra vertigine di un essere mai scisso in due. Si ritrovarono così in quell’attimo senza passato né futuro, sapendo bene però che il loro passato durava da un’eternità, il loro futuro si proiettava verso mondi ancora da esistere, e il loro presente si dilatava oltre le soglie dell’infinito.

Mikhail non partì quel giorno. Non partì mai più. Il suo viaggio era tutto fra le braccia di lei.
 

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